Per Albert Einstein i bambini intelligenti sono quelli a cui si raccontano tante fiabe. Il motivo presto traducibile è che ascoltare una storia apre la mente come una spinta su un rullo di carta. E le storie disegnano nella mente, con l’inchiostro della fantasia, un mondo diverso dal proprio, che non esiste, forse ambito, in cui il bene trova il modo di vincere sul male con astuzia e altri meriti personali, dove i protagonisti in cui ci si identifica diventano eroi tramite una decisione impavida che conduce loro a una svolta vincente.
La struttura narrativo-pedagogica della fiaba ricama sapientemente una trama di punti in comune con il mondo interiore che il bambino può decodificare per sciogliere i nodi della propria personalità, afferrarla, comprenderla, conoscerla. La proiezione della propria immagine nelle vesti dell’eroe avviene in modo automatico, e scatta sin da subito, a partire dalla ragnatela delle difficoltà sino al finale glorioso. Ascoltare la storia di qualcuno che si trova in difficoltà sprona oltretutto la produzione cellulare di empatia, elemento costitutivo dell’intelligenza emotiva, ossia quel terreno morbido in cui comunicare è più dolce, sincero e immediato. L’intelligenza emotiva è una capacità. Non tutti ne sono dotati. I bambini che amano le fiabe a quanto pare ne godranno, assicurandosi così un futuro da grandi comunicatori.
A costruire la fiaba è una narrazione coinvolgente e convincente che s’infiltra liquida nelle membra come pozione magica. E se la fiaba deve sfruttare al massimo la parola, esiste al contempo una costruzione narrativa che può farne a meno, traslando la logica delle parole nella grammatica delle immagini: è il video. Qui, a generare il messaggio è la potenza evocativa del linguaggio non verbale, lo stesso linguaggio utile a comunicare con il bambino prima dello sviluppo della parola, quando non esistono ancora substrati alternativi per la decodifica.
Ciò che cambia nella comunicazione visiva tra adulti è il margine di complessità in cui il costruttore del messaggio gioca la sfida comunicativa con il suo interlocutore. In questo esercizio di stile in cui inserire contenuti di livello nidificano altri valori: la padronanza dei mezzi, la libertà nelle costruzioni metaforiche e la diffusione della bellezza estetica, che plasma come conseguenza la risposta intima delle sensazioni e quindi l’interlocutore stesso. Sono valori che creano identità, che distinguono un autore da un altro, e che lo fanno apprezzare pur non facendo classifiche, perché nessun messaggio è universalmente migliore di un altro, solamente più o meno affascinante.
Molti autori si sono cimentati con lo spot pubblicitario, un genere che si è sempre esposto a nuove frontiere stilistiche. Ultimo lavoro autoriale in ordine cronologico è lo spot Chanel di Baz Luhrmann, regista di film dal forte impatto scenografico come Moulin Rouge e Il Grande Gatsby. Ai registi di questo calibro le agenzie affidano dei veri e propri mini film, che vanno poi a ridurre al format da 30” per la tv frettolosa.
A cavalcare ad ampie falcate con lunghi femori i minuti a rallenty dello spot è Giselle Bundchen, star di stile ed eleganza che ben rappresenta la voce classica del famigerato n.5, ereditando un ruolo nobile nel parterre delle testimonial. Pur in assenza di contenuti lo spot è vincente perché il rallenty fa il suo dovere, la fotografia è eccellente e ci si abbandona alla voce suadente di Lo-Fang nella cover da Grease, anch’essa a rallenty, di “The One That I Want”.
Ma c’è uno spot su tutti, a mio avviso, che sublima il concetto di eleganza. Uscito nel 2011, lo spot per J’adore di Dior con Charlize Theron e girato dal gentiluomo Jean-Jacques Annaud (Il nome della Rosa, L’Amante) in cui fanno capolino Greta Garbo, Grace Kelly e, in via del tutto clandestina la naturale testimonial del concorrente Chanel n.5, Marylin Monroe. Lo spot è superbo, delicato e deciso, emoziona con dolcezza e passione, è una fiaba che lascia il desiderio di rivedere le tre icone del vecchio cinema sulle passerelle nella nostra epoca grigia, di saperle ancora parte del nostro tempo a sfiorare le gote incipriate della reale Theron. Parlare di contenuti in uno spot invece significa parlare di Gabriele Muccino e del suo capolavoro per Intimissimi, con quella Monica Bellucci in cui tutte le donne vorrebbero reincarnarsi. Colonna sonora: il tango dei Gotan Project, cifra stilistica che riduce il tutto al concetto di passionalità fragile. Eccellente sceneggiatura.
Il video, lo spot e qualsiasi altra forma audiovisiva condensata non manca mai di porgere un inchino al grande cinema, per cui la massa nutre una fame e un amore incontrastati. La pubblicità sfrutta questa consapevolezza investendo con forte determinazione nel cinema in pillole che, da Federico Fellini con Campari e Barilla a Woody Allen con Coop, ha proiettato nelle case il gusto di una creatività che scavalca lo scopo commerciale, ai fini del godimento di un prodotto artistico che potrebbe anche bastare a se stesso. Le aziende, in questi casi, si portano a casa un’opera d’arte che entra nella storia mentre la resistenza del consumatore decade di fronte al valore della firma, a cui non si può attribuire la responsabilità della persuasione forzata all’acquisto. Il pubblico così accoglie e rispetta la proiezione del lavoro cinematografico per cui non paga nemmeno il biglietto, anzi lo riceve come un dono, un gesto gentile.
L’estrazione cinematografica dello spot non è l’unica cosa che la massa perdona alla pubblicità. Molto apprezzata è la selezione e il lancio di nuovi brani musicali che grazie alla tv, ancora meglio che dalla radio, diventano hit di successo. Si ascolti la voce di Dorotea Mele nel brano composto da Fabrizio Campanelli per lo spot Calzedonia e l’indiscutibile Julia Roberts con le sue calze per tutte le occasioni. Dunque se la pubblicità diventa intrattenimento e proposta il target si avvicina, ascolta, è disponibile ad assorbire poiché comprende e accoglie l’esistenza di un valore disgiunto e attendibile.
I video concept che si sviluppano qui in 99MC seguono una linea dura: l’intenzione di rottura dell’abitudine nell’assimilazione dei messaggi, decisamente in contrasto con la critica all’immagine, tuttora sostantivata nei termini dell’illusione e dell’inganno. È chiaro che il linguaggio informale o libero, non canonizzato, non standardizzato, o anche palesemente artistico, che rientra nel contemporaneo, crea spazio per l’incomprensione, ma è proprio lì che sta il gioco: la sfida ad attivare nuove estensioni linguistiche. Il distacco creativo dalla realtà e le nuove metafore sorprendono la massa ancora disarmata, senza strumenti per aprire un dialogo. Eppure è lo stesso spazio aperto e nuovo in cui spontaneamente un bambino volteggia soffice alla ricerca della propria evoluzione.
“Io credo questo: le fiabe sono vere. Sono, prese tutte insieme, nella loro sempre ripetuta e sempre varia casistica di vicende umane, una spiegazione generale della vita, nata in tempi remoti e serbata nel lento ruminio delle coscienze contadine fino a noi.”
Italo Calvino