Comunicazione _creativa

99 Million Colors nacque al termine di un accurato percorso di analisi. Il punto di partenza è stato un momento, uno spazio temporale in cui due forze di diverse derivazioni, l’ingegneria delle tecnologie e le teorie del linguaggio cinematografico si sono incontrate e poi incastonate in un mosaico ben interpretabile, individuando nella comunicazione il comune denominatore.

Lungo il viaggio alla scoperta dell’identità, il gruppo che oggi dà forma a 99 Million Colors ha captato un’appassionata tendenza di ogni forma comunicativa verso un restyling informale, tutt’altro che pudico. La vita sul web mal tollera maschere e veli. La comunità assuefatta dai metodi schietti della rete oltrepassa le barriere, in barba all’illusione di una legge sulla privacy che non frena la volontà di apparire. Ci si inglesizza pacificamente dentro una community mai così aperta prima d’ora, nemmeno fossimo condizionati dal ritmo politico di una Woodstock qualsiasi. La rivoluzione stavolta non riguarda il costume. Il desiderio di sovversione attualmente scavalca i limiti del tempo e dello spazio, dove tempo e spazio sono anche i vecchi requisiti del dialogo. Comunicare oggi significa pubblicare e il dialogo non s’intrattiene più fra due persone ma fra un individuo e la sua community.

Possiamo parlare con tutti, commentare su tutto, incontrarci anche senza toccarci, guardarci anche senza odorarci, come vogliamo, quanto vogliamo. Conosciamo dati, interessi, abitudini, il passato fotografico di migliaia di persone, ma non ci conosciamo “di persona, personalmente”, come direbbe il Catarella di Camilleri, scrittore e grande conoscitore di uomini e donne dei nostri paesi, sempre meno maschere, sempre meglio profilati. Ciò a cui stiamo assistendo assomiglia tanto a una crudele fuga dai canoni linguistici accademici che, se da una parte crea destabilizzazione, dall’altra procura un coinvolgimento più largo e un innalzamento del livello creativo dei messaggi, appunto senza particolari pudori.
Riesco a vedere un legame sottile ma inconfondibile tra il modo di comunicare sul web e l’approccio fra due persone in sella a una bicicletta, per fare l’esempio di un effimero contatto tra realtà vissuta e realtà virtuale. Se una domenica vi capita di fare un giro in bici, vi ritroverete catapultati in situazioni inaspettate. Ho imparato, a forza di pedalate, che i ciclisti condividono un piano di umanità più socievole, solo per una mera questione di condivisione della stessa passione. Due sconosciuti che si incrociano per strada in bici si studiano da lontano, aspettano che la distanza diminuisca per ottenere più dettagli, finché all’ultimo istante, prima che l’uno sparisca per sempre alle spalle dell’altro, si salutano. Il fatto che qualcuno condivida una nostra attività ammanta quel qualcuno di una certa simpatia, abbatte timidezze e formalità senza per questo uscire dal rispetto di un’etica, e aggancia un nuovo contatto.

L’illusione di un buon carattere (o di competenze, nel nostro caso) è un fattore che si smaschera rapidamente nella vita da web. Per questa ragione siamo costretti a raccontare ciò che siamo veramente e le possibilità di un bluff sono ridotte al minimo. Il piano della condivisione si avvalora del ripristino dell’anima sensoriale, chiamando al concerto più di uno strato d’attenzione. La reputazione che si crea, e che sfugge al nostro completo controllo, non mente. Se da una parte la parola ha ormai il suono di una nobiltà decaduta, dall’altra l’immagine - che della parola, pur seminuda e scheletrica, ha sempre bisogno – è il punto d’incontro di qualsiasi interlocutore.

La grammatica delle creazioni visive è in continuo mutamento ed esiste nelle sollecitazioni che spingono a largo i confini della comprensione dei messaggi, fastidiosa o noiosa quando troppo facilitata. Si pensi ai contenuti dei testi, sempre più svincolati dal peso forbito e didascalico, ora più segmentati e audaci negli spazi nevrotici dei social network. E l’immagine è trattata alla stessa stregua, pur con altri risultati: intermittente, sporca, graffiata, truccata è comunque potente, potentissima. E anche in una realtà virtuale lo stile è la chiave per far capire chi siamo. Lo stile non è altro che una massa malleabile che si adatta alle esigenze di apparire in un modo unico, in uno spazio esclusivo, su un ritmo preponderante. Per arrivare a maneggiarla e a costruirci l’identità si deve passare attraverso quella che per me è la vera rivoluzione nelle mani della comunicazione, disarmante, disorientante, rocambolesca. Quella che risiede nella rottura, nella deframmentazione degli elementi, come se l’assimilazione individuale delle parti restituisca maggior risalto al totale. E se c’è padronanza dei mezzi tra i creatori c’è lo spettacolo, che arriva al cervello ad alta velocità, a ritmo sfrenato, come in un vernissage d’arte contemporanea.

Da qui anche il lavoro sui siti 99 Million Colors che riscopre nuove linee dall'unione delle parti, nuovi piani di profondità, intersecati, rispettosi delle singole traiettorie, personalizzati, ma mai solitari, perché né la solitudine né l’abbandono sembrano più fughe realizzabili. La direzione è unica. Siamo tutti sulla stessa strada, insieme, per raggiungere un obiettivo comune ma sfaccettato in milioni di unità. Il gioco è ancora una sfida contro il tempo. Ma un tempo più intimistico. Il gioco consiste nel trovare, quanto più rapidamente, la propria identità, la più autentica, per far capire che ci siamo, che siamo pronti, vivi. Un’identità riconoscibile a prima vista, a primo impulso. Noi ci siamo messi in testa di cercarla per voi.

99 Million Colors ha sede a Jesi e da lì parte per raggiungervi ovunque voi siate, chiunque voi siate.